Introduzione al future archive, interview e texto di Carla Bottiglieri
Testo publicato in ART’O, n° 26, autumno 2008, pp. 42-48.
Immaginate di parlare al passato. Immaginate di parlare del presente al passato. Immaginate di essere sopravvissuti al presente. Immaginate di esserne testimoni. Immaginate che il possibile sia il presente. Immaginate di raccontare questi anni. Quegli anni. Immaginate di avere la possibilità di dire. Immaginate che questo dire sia compiuto. Vero. Definitivo. Come quando parlano i bambini.
Immaginate una distanza. Uno scarto tra voi e voi. Una crepa del tempo. Immaginate uno specchio che vi stia di fronte. Immaginate un volto, che sia il vostro esatto, guardarvi negli occhi. Immaginate di disconoscervi. Immaginate che questo sguardo vi renda improvvisamente estranei.
Immaginate la vostra voce. Immaginate come sarete di qui a cinquanta, a cent’anni. Immaginate come sarà il mondo. Immaginate il limite fin dove potete spingere la vostra immaginazione. Immaginate che sarete gli stessi, diversi. Non domani, ma ora. Dal futuro al presente.
Il future archive consiste in un database che l’artista austriaca Manuela Zechner ha cominciato a costituire nel 2006, a partire dalla collezione eterogenea di una trentina d’interviste e conversazioni filmate. In un formato molto semplice – quasi sempre un primo piano – la persona intervistata è invitata a ricordare il presente a partire da un prisma soggettivo di prospettive ed esperienze, e soprattutto a parlare come se l’intervista avesse luogo in un futuro più o meno prossimo venturo, talora scagliato in avanti nei secoli, talora intensamente vicino. Condizione di questo futuro è che sia “desiderabile”, ovvero che il testimone parli da quel “luogo” che le sue personali aspirazioni e proiezioni sono state in misura di immaginare. L’atto del ricordo non traduce soltanto una microstoria privata di gesti ed eventi – molto raramente, in effetti, si tratta di autobiografie: le persone che (ci) parlano sono piuttosto dei testimoni che la Zechner sollecita a un esercizio continuamente rettificato di contestualizzazione storica. Archivio privato e pubblico, dunque, che si fonda su una polifonia di voci singolari, spesso anche divergenti e dissonanti, e che elude ogni pretesa di consegnare una versione unitaria e legittima della storia, il future archive realizza semmai un concatenamento di enunciazioni collettive, un archivio vocale e vivente.
Note di un dialogo a distanza
Carla Bottiglieri: Mi è sempre piaciuto pensare che quelle che nella lingua inglese suonano come contrazioni o condensazioni semantico-sintattiche, nelle lingue latine puoi allargarle e dilatarle in più linee di fuga, quasi decentrando l’oggetto, differendolo all’infinito.
Nel tuo future archive, questa disseminazione mi sembra particolarmente operante. Il titolo stesso si avvolge intorno a una temporalità che non si lascia fissare né da un nome né da un aggettivo. Nel riprendere l’affermazione di Bruce Sterling: “il futuro è un verbo”1
, tu metti effettivamente in rilievo la processualità verbale che infiltra e intacca l’apparente immobilità dell’archivio, il suo corpo monumentale.
Se l’archivio è “del” futuro, è perché in esso vengono a deporsi congetture e illazioni su quanto noi pensiamo come “futuro”, su quanto anticipiamo e immaginiamo come possibile a-venire. Possiamo anche pensare a tutta quella letteratura di fantascienza – in Italia, per esempio, è fiorita negli anni cinquanta, con le collane di Urania, di Galaxy, delle Cronache del Futuro – eppure il future archive non reca di questa tradizione che la traccia iniziale, forse la curiosità per una archeologia fantascientifica delle incursioni nello spazio e nel tempo.
In realtà il future archive rifugge allo stesso tempo la dimensione figurativa e la teatralizzazione: gli scenari sono soprattutto verbali e discorsivi, la prefigurazione è affidata al racconto, che è testimonianza. Per chi testimoniano, i testimoni del future archive? È, il loro, un archivio a venire, che sarà accessibile solo in tempi di cui non conosciamo ancora le coordinate? È un archivio “per il futuro”, affinché la nostra discendenza possa ricordare?
Ci viene il dubbio che non siamo noi i suoi destinatari o utenti. Ovvero che il future archive non sia inteso per noi, bensì per un futuro anteriore.
Siamo così di fronte a un’infrazione o violazione: come siamo potuti entrare in possesso di questo documento? O l’archivio futuro è come la terribile macchina del tempo che nel bellissimo film di Chris Marker, La Jetée (1962) rivela il tragico sillogismo tra presente, passato e futuro?
Manuela Zechner: Per me, la maniera in cui il titolo risuona ha soprattutto a che vedere con un archivio dei nostri futuri “oggi”, vale a dire degli spazi virtuali, immaginari che chiamiamo “futuro”: il future archive è una mappa o una topologia di questi spazi. C’è anche un riferimento all’idea che il futuro sia un verbo, come dico nel testo che tu citavi prima, e che in un mondo/tempo in cui l’economia opera attraverso speculazione e proiezione (aspirazione, speranza in qualcosa di migliore a venire, motivazione, “visioni”, spirito imprenditoriale, creatività e flessibilità e visione a corto termine delle cose), in cui molte cose ci sono vendute in una retorica che le inquadra come “il futuro” (rigenerazione urbana, assicurazioni, tecnologie, educazione, creatività, mutui o prestiti, conti bancari, quote di partecipazione in borsa, disegni politici…), il nostro senso del futuro si trovi a essere sovra-determinato da un riferimento generalizzato (e perciò incoerente) al “futuro” come quello che dobbiamo aspettarci se vogliamo mantenerci in sincronia con il corso del mondo. Il future archive è utile per rivolgere uno sguardo all’attuale e per vedere come il futuro ti porti necessariamente indietro rispetto al “qui e ora”, ai riferimenti contemporanei e passati, alle tue condizioni soggettive e materiali (cos’è immaginabile per me adesso, dove sono i limiti di quello che posso concepire e perché?).
Il titolo può anche funzionare in termini di un archivio “per” il futuro, certo, ma questo aspetto per me è secondario.
Il sito web è ciò che ospita quest’idea di un archivio come un corpo di conoscenza che è costituito attraverso una concentrazione di materiali destinati necessariamente a restare dei frammenti: il future archive allude a futuri possibili pur mantenendoli frammentati, per cui l’archivio è qualcosa che ti richiede un certo lavoro per ottenere una sintesi, una immagine più larga di come i futuri contemporanei si presentano. Tu devi “ricordare” per poter integrare quei frammenti in un quadro più ampio: l’archivio nella sua frammentarietà non dice nulla senza la soggettività dell’osservatore/ricercatore che è messo a lavoro e che verifica l’archivio contro le sue personali memorie e condizioni, così come il “testimone” è costretto, nell’atto del ricordo, a verificare continuamente la possibilità delle proiezioni e degli immaginari che produce.
Il futuro può funzionare come aggettivo, verbo o nome, e per questo è sempre scritto a lettere minuscole (o secondo me dovrebbe, ma non credo che tutti i testi esistenti o perfino il sito web siano rigorosi da questo punto di vista). Il futuro è dunque insieme immagine, processo di proiezione e denominatore/aggettivo che si riferisce alle cose a venire.
C. B.: Nelle critiche mosse da Derrida, l’archivio è un’iniziativa di autorità, di potere: scegliere una memoria significa confiscarla, selezionarla, classificarla e integrarla in una tassonomia di fonti materiali e documentarie a cui è affidata la “verità” della storia.
Ora, mi sembra che nel “tuo” archivio agisca una forza sovversiva e centrifuga che impedisce qualsiasi pretesa di sintesi o di ordinamento, a favore di una deriva costante. Il risultato di questa effrazione del tempo è un sabotaggio che mina tanto la linearità cronologica quanto le più irrimediabili (o irredimibili) visioni di una circolarità della Storia.
Se tento di decostruire questa metodologia delle sovversioni in atto, mi sembra di poter individuare qualche operazione significativa:
a) La “performance”. Il processo di enunciazione sottende una proiezione preliminare in un futuro dal quale, o dopo il quale, si parla: la condizione temporale del locutore di fronte alla tua telecamera è il suo tempo presente. Il locutore parla “dal” suo presente, come testimone.
b) Il tempo e lo spazio della ricezione. Noi, spettatori (o utenti dell’archivio), riceviamo il racconto come una doppia testimonianza: allo stesso tempo per il nostro tempo presente, al quale il locutore fa riferimento nel suo atto di ricordare (il suo passato) e per il nostro prossimo futuro, che si trova ad essere sito e luogo della performance del locutore.
c) La prospettiva-retroattiva del discorso. La narrazione si avvolge a spirale intorno al passato, intorno a quanto “è avvenuto” (ovvero, per noi spettatori, intorno a quanto “sarà avvenuto”) e si dispiega allo stesso tempo di fronte allo spettatore come “presente” o presente prossimo. Doppia spirale o simultaneità di ascesi e declino.
d) Il futuro indicizza un sito del discorso piuttosto che il suo contenuto. In tal senso, il futuro al quale alludono i testimoni è piuttosto un’ombra ellittica, la condizione di uno sfondo che torce la figura del ricordo. Il futuro ha effetto nella narrazione come antecedente assente, come origine e luogo. Nella maggior parte delle interviste, i locutori parlano del loro passato: il loro presente emerge a tratti o si rivela (un “coming out”!) dal contesto di linguaggio e di appello, piuttosto che da un impianto scenografico futuro o futuribile. E forse l’inquietante risiede proprio nella loro terribile somiglianza e familiarità…
M. Z.: Credo che in generale può essere di una qualche utilità distinguere tra il processo dell’intervista e il processo della ricezione, come tu fai descrivendo i ruoli del “locutore” e dello “spettatore”; ma c’è un’altra figura in gioco che potremmo chiamare l’interlocutore (intervistatore e facilitatore), cioè io stessa e Anja Kanngieser, la maggior parte delle volte.
Sono anche d’accordo su quanto dici intorno a come la sovversione opera: è una molteplice provocazione, in un certo senso. L’interlocutore (che è principalmente la persona che istiga l’intervista) provoca il locutore, quindi in una seconda fase è il locutore a prendere il ruolo di agente provocatore verso gli spettatori – e in qualche fortunata intervista il locutore provoca attivamente anche l’interlocutore… In ogni caso, penso che il progetto provochi una contestazione molto attiva, specialmente quando è presentato come memoria in un formato documentario; ma la sua contestazione è difficile perché non c’è necessariamente un dato linguaggio o una data cornice per rispondere a questo tipo di memoria o arte documentaria… Questa è la ragione per cui funziona in maniera più interessante in un contesto di nuovi media e non in un ambiente propriamente d’arte, come nelle gallerie: qui il contenuto diventa più facilmente astratto e non ti tocca come potrebbe se tu lo ascoltassi alla radio o mentre stai guidando la macchina…
C. B.: E pertanto la figura del terzo, dello spettatore-testimone (ma un testimone non è forse, etimologicamente, sempre, “colui che si tiene per terzo”
?2) sembra cruciale per l’economia del tuo archivio, se non altro per la sua tensione politica, per quello che vi figura quasi come una prassi collettiva.
Paolo Virno rileva che la prassi non può fare a meno della “terza persona” per gli stessi motivi che, secondo Aristotele nell’Etica nicomachea, la distinguono dall’episteme (conoscenza pura) e dalla poiesis (produzione): “Se la riflessione teoretica elude lo sguardo altrui e mette la sordina al mondo delle apparenze, la prassi, invece, presuppone e ripristina sempre di nuovo uno spazio pubblico. Se la produzione dà luogo a un oggetto indipendente, ossia ha un fine esterno, la prassi, invece, è un’attività senza opera il cui risultato coincide per intero con il suo svolgimento”3.
M. Z.: Rispetto a quello che tu proponi e al testo di Virno sul “movimento performativo”, stavo pensando alla questione degli atti di parola, che è stata fin dall’inizio un’idea molto importante per il future archive. Mi trovo adesso a chiedermi: sotto quali condizioni possono le interviste dell’archivio futuro avere successo come 1) processo (intervista) e 2) prodotto (video) – in quali contesti, situazioni e cornici questo progetto funziona in modo da aiutare coloro che vi partecipano a muoversi verso nuove idee e questioni, senza ricadere nella riproduzione di immagini del futuro già esistenti o nel prenderlo puramente per un nome (e al singolare, nel peggiore dei casi)?
A questo punto, posso già menzionare qualche esempio:
a) Il future archive in musei o esposizioni è per me un po’ un fallimento: se presentato in una cornice teatrale o come “opera d’arte”, questo lavoro non ti “tocca”. È invece molto efficace se diffuso per radio o televisione, o come un documentario cinematografico, in quegli ambienti, insomma, dove vi sia una sospensione della finzione e una rivendicazione di attualità e ufficialità che l’arte non può sostenere. Questo nei limiti di quanto riguarda la rappresentazione del progetto (ovvero ciò che chiamerei qui prodotto).
b) Nei termini del processo dell’intervista, credo che varrebbe la pena (e ci vorrà del tempo) sviluppare una sintomatologia dei modi di performance, vale a dire delle tendenze che sembrano comuni quando pensi al “futuro”, per esempio:
1) profezia, messianismo – forma del parlare per conto di altri, e di conseguenza presa di potere
2) malinconia
3) utopia – ingenuità
4) dis-topia / cinismo
Tutto questo riveste un certo interesse perché sembra rinviare a una maniera molto contemporanea di riferirsi alla storia e al futuro, anche in termini di “fine della storia” e déjà vu.
Sarebbe estremamente utile anche riflettere sulla relazione tra il processo dell’intervista e la funzione “spettatoriale”, per comprendere in che misura l’uno e l’altro si rispecchiano mutualmente, o sono assolutamente divergenti.
C. B.:
Paolo Virno, riprende Henri Bergson, e il suo saggio Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance (1908). Il déjà vu, sostiene Bergson, rivela in via eccezionale il modo ordinario in cui opera la nostra coscienza: mostra cioè che noi percepiamo la realtà, simultaneamente, come presente e come passato. Percezione e ricordo nascono per parto gemellare, e quel che chiamiamo ricordo non è altro che il presente stesso, visto sotto la specie del possibile, l’intromissione del condizionale in un hic et nunc retto dall’inesorabilità dell’indicativo. Le due esperienze simultanee, sono solo differenti in “natura” e non in “grado” (o importanza): noi facciamo esperienza del presente come reale, compiuto, attraverso le nostre percezioni, ma, nello stesso istante, facciamo esperienza anche della “memoria” del presente (come, appunto, nel fenomeno del déjà vu), che consiste nel processo in atto di formazione della memoria, anziché nel sentimento di un evento già accaduto e che sembra ripetersi in maniera inquietante nel presente. Memoria e percezione sono dunque due funzioni coestensive del presente: è solo a causa del nostro bisogno di azione che spesso saltiamo la percezione della memoria-in-progress per dare spazio alle più utili e contingenti informazioni che ci consentono di muoverci e agire nella situazione presente. Il déjà vu emergerebbe allora in quei momenti in cui l’azione è vacillante, e noi possiamo cedere la nostra attenzione alle fessure di una percezione temporale estesa.
Per Virno, il déjà vu nella sua modalità di falso riconoscimento del passato nel presente, o paramnesia, è una patologia che corrode la genesi stessa del tempo storico come possibilità di riproduzione della vita affrancata da una coazione a ripetere: è lo stesso virus, se vogliamo, che si è insinuato nella negatività delle teorie della Fine della Storia. Mi sembra di sentire l’eco dei versi di T.S.Eliot: “Time present and time past / Are both perhaps present in time future, / And time future contained in time past. / If all time is eternally present / All time is unredeemable”5.
In realtà per Virno, così come per Bergson, l’anacronismo che inflette la nostra percezione del presente è solo formale e in quanto tale viene ad affermare la pura coesistenza e simultaneità della potenza e dell’atto, delle “generali facoltà” del linguaggio e dell’intelletto e della loro declinazione performativa attuale.
Se, al contrario, il déjà vu è interpretato come il richiamo di un fatto passato che sembra ripetersi irrimediabilmente, noi pervertiamo il presente-possibile in un passato-reale.
Eppure, quanto Virno denuncia come patologicamente o pericolosamente “astorico”, a me sembra operare nel future archive con una straordinaria potenza politica.
Se il “finto riconoscimento” è di una qualche pertinenza per l’analisi del future archive”, è perché esso si sdoppia ulteriormente in un’altra falsificazione: i testimoni-locutori di fronte a noi non stanno “falsificando” il loro presente, usando tatticamente la forma patologica del déjà vu. Al massimo, essi istituiscono ex novo il loro passato. Mi verrebbe da dire che quanto in loro è ricordo, in noi è tradotto o trasdotto in nuova potenza. L’inestricabile ambiguità del déjà vu, come processo attuale della memoria e sentimento fallace del passato, si ripartisce – e forse si riequilibra – nella polarità del performer e dello spettatore. Conferendo un valore di “fatto” al presente in corso (presente, beninteso, per noi; per i “performer” si tratta di un passato fittizio), improvvisamente l’archivio si riempie di documenti inediti.
Quello che potrebbe essere, nella storia attuale, liquidato come irrealizzabile utopia, qui si dà come possibilità fattuale, soglia aperta di potenziale, attraverso la quale articolare la nostra voce e il nostro linguaggio – anche se si tratta solo di un atto di parola. È questo l’elemento che mi aveva più colpito quando ho visto la prima volta il video del future archive, questo “gioco di verità” ovvero questa strategia retorica che spinge a pensare fuori dai limiti imposti da un certo determinismo che istituisce il corso “inevitabile” della storia, con la conseguente perversione delle immagini e dei linguaggi vigenti.
Ambiguamente a metà tra prassi e produzione, il future archive ritaglia uno spazio performativo che istituisce una “comunità” istantanea (come a teatro, allora…) e in divenire. Se una sintesi temporale delle anamorfosi in cui si declinano gli atti di parola è possibile, questa avviene nel segno e nel tempo linguistico del futuro anteriore: nel considerare un’esperienza prossima ventura come già trascorsa, la si sottomette a quella valutazione che spetta ai fatti compiuti – e contemporaneamente si esercita un dubbio “metodico” nei confronti di quello che, ora, è spacciato come destino inevitabile o inclinazione “naturale”.
È come se, nel semplice atto di prendere la parola e di dar conto del presente, noi ci investiamo nel processo e nella responsabilità di comporlo come memoria, di introdurre in tal senso uno scarto, una “differenza”, di sospenderne l’uso corrente. L’atto di parola, di fronte a testimoni presenti o virtuali, è – nei termini di Virno – un diagramma logico-linguistico dell’azione innovativa, vale a dire della possibilità di interrompere il flusso dell’esperienza e di operare “quei mutamenti di direzione argomentativa e quegli spostamenti di significato che, nel macrocosmo della prassi umana, provocano la variazione di una forma di vita”6.
Se possiamo pensare uno statuto estetico del future archive, non credo che esso si risolva né solo come “processo”, né soltanto come “prodotto”: c’è qualcosa, mi sembra, che invita a pensare i processi d’individuazione e soggettivazione come possibilità di accedere allo spazio di una prassi di produzione di sé, che ecceda i puri confini linguistici dell’enunciazione. Mi viene da pensare a Simondon: “Individuato è l’essere che sperimenta l’ascesa e la discesa del divenire rispetto al presente centrale. Vi è un essere individuato vivente e psichico solo nella misura in cui prendere su di sé il tempo. Vivere come essere individuato significa praticare la memoria e l’anticipazione. Il presente, psico-somatico ai suoi bordi, è però essenzialmente psichico. Rispetto a questo presente psichico, l’avvenire è un immenso campo di possibilità, un ambiente di virtualità unite al presente da una relazione simbolica”7.
M. Z.: È vero che Simondon è di grande aiuto per pensare l’individuazione creativa, anche per il modo in cui descrive la coscienza e il triangolo tra percezione, affezione e azione (per dirla molto semplicemente)…in un certo senso “futuro” può essere davvero letto insieme con “individuazione”: il futuro è l’attesa/aspettativa che noi abbiamo dall’individuazione forse…
In tal senso, la maniera in cui pensiamo determina anche la maniera in cui comprendiamo individuazione e divenire, i nostri modi stessi di rapportarci a processi e situazioni.
L’archivio istituisce memoria, è vero. Forse possiamo anche dire che il futuro istituisce il presente, perché orienta le nostre idee e azioni. In quanto tale, non è per niente innocente, e il processo che io propongo è abbastanza teso, perché provoca una costante presa di decisione, nel senso che negoziare e trovare delle soluzioni creative allude sempre a una dimensione politica. Se spingiamo un po’ oltre la riflessione, questo processo si riferisce soprattutto allo spazio soggettivo dell’intervistato/locutore (e in grado minore anche dell’interlocutore, certo), ma si riflette ugualmente in quello che Simondon definisce come processo d’individuazione collettiva: “[…] il gruppo d’interiorità nasce quando le forze del futuro, implicite in molti individui viventi, pervengono a una strutturazione collettiva”8
. Quando ho cominciato a lavorare al progetto, poco più di due anni fa, ero mossa dal desiderio di comprendere cosa avessi in comune con persone della mia generazione, e con le loro idee e aspirazioni politiche; il fatto di strutturare queste prospettive eterogenee nella forma di un archivio è stato ed è in un certo senso una provocazione, perché queste singolarità si presentano quasi come un “gruppo sociale” o “in-group”, laddove una condivisione di forze d’avvenire deve ancora essere determinata o addirittura prodotta. Questo potrebbe essere anche il carattere “performativo” dell’esperienza delle persone intervistate: nel partecipare al processo, inevitabilmente si relazionano al campo di forze e di tensioni che è l’archivio, per cui ogni intervista può funzionare come un momento relazionale tra due o più conversazioni.
Anche quanto tu dici intorno al futuro anteriore, io lo vedo molto in termini di azione e presa di “respons-abilità”. A volte, nell’impegno proiettato, c’è quasi una tendenza profetica o messianica, ma nelle interviste essa è per lo più duramente respinta quando si presenta troppo generalizzata, perché risuona come una presa di decisione per conto di altri. È altrettanto possibile “agire” il futuro anteriore in una maniera ludica credo, se lo assumi più nel modo della fantascienza e abbandoni l’idea che produrrai una dichiarazione dotata di autorità (sul presente o sul futuro).
Sono assolutamente d’accordo sulla sospensione del tempo e sul fatto che il progetto, in qualche modo, produce scarti, fessure e vacui nel tempo e nella temporalità, tendendo verso uno spazio di potenzialità in cui passato, presente e futuro sono abbastanza mescolati. Questo spazio di potenzialità può essere facilmente soffocato, e per negoziare questa limitazione hai bisogno di sviluppare una strategia: forse è questa l’utilità che spero possibile nel progetto.
Mi rendo conto adesso che in realtà c’è un lavoro che è stato di grande influenza per il future archive,, inconsciamente, e che forse costituisce l’opera d’arte che più di tutte, almeno finora, mi ha impressionato: la “Time Delay Room” di Dan Graham. È un’istallazione che consiste in un corridoio corto che ha tre schermi su un lato, e uno sull’altro, così come delle telecamere a circuito chiuso. Su uno schermo del muro A, vedi l’immagine in tempo reale di te stesso nello spazio. Sul primo monitor dello schermo B, vedi l’immagine di te con un ritardo di un secondo; sul secondo monitor, la tua immagine ha un ritardo di tre secondi, e sul terzo (sul lato destro) il ritardo è di dieci secondi (i tempi che sto dando sono un’approssimazione, ma sono certa che possiamo ritrovare i dati esatti). Quello che succede è che nel monitor che opera con una differita di tre secondi, non riesci più a dire se l’immagine che vedi è il presente o il passato. Deve esserci un rapporto con qualche soglia neurofisiologica di memoria a corto termine. È un’esperienza incredibile sentire te stesso esattamente in quell’intervallo, in quello scarto.
Pensare in termini di differita può essere utile: è come un esercizio per sviluppare una sensibilità a ritardi e fessure, a temporalità differenti, per imparare a muoverci all’interno dei loro spazi interrelati, in un archivio che divenga geografia immanente di attuale e virtuale.
1 M. Zechner, A. Kanngieser, The future archive : subversive potentials in remembering and knowing, or knowledge is a verb, in : http://www.futurearchive.org/knowledgeisaverb.html
2 Giorgio Agamben, in uno scritto che fa da postfazione all’edizione italiana di Monsieur Teste di Paul Valéry, sottolinea che “il termine latino testis deriva, secondo gli etimologisti, da un arcaico ‘tristis’, che significa ‘colui che si tiene come terzo’”. G. Agamben, L’io, l’occhio, la voce, in P. Valéry, Monsieur Teste, trad. it. di L. Solaroli, Milano, SE, 1988, p. 108.
3 P. Virno, Motto di spirito e azione innovativa, in Forme di vita, vol 2-3, Roma, DeriveApprodi, 2004, pp. 16-17.
5 Il tempo presente e il tempo passato / Sono forse presenti entrambi nel tempo futuro, / E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile. T.S.Eliot, Quattro Quartetti: Burnt Norton, in Id. Opere, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 1992, vol. II.